lunedì 5 marzo 2012

Dar la vuelta

Non dirò di quando dimentico di buttare la carta igienica nel cestino e me ne ricordo solo quando ho tirato lʼacqua.
Né dirò dellʼuscita notturna nella sempreaperta tiendita di Miriam in cerca di un dolce al cioccolato (e también di dolcezza?), accompagnata da Marina.
Né dirò che qui il cioccolato a forma di tappo di bottiglia di birra ha talmente tanto cacao che è amarissimo e poco coccolante. Non mi lamenterò delle maniglie che si chiudono schiacciando il bottoncino del pomello allʼinterno e la chiave rimane sul letto e tu fuori attonita e la finestra chiusa.
Non dirò di essermi introdotta per un pertugio nella stanza dei doppioni delle chiavi del Manthoc.
Non inveirò contro gli automobilisti che quando ti vedono in procinto di attraversare accelerano o strombazzano per inchiodarti al marciapiede. Che qui la vita da pedone è rischiosa, che ai tassisti sembra non dispiaccia lʼidea di uccidere i bipedi senza ruote, nonostante essi rappresentino potenziali clienti.
Infine non criticherò i ritardi di ore e ore sul luogo di lavoro. In fondo se fossi il figlio che oggi compie 10 anni sarei felicissimo se mia madre restasse a casa a festeggiarmi.

Dirò invece della sensazione di felicità sul far della sera, quando senti di esserti meritata quella cenetta, ma non ti stancherai mai della smisurata gratitudine che stupita senti di provare per quelle risate.
Dirò della notte che è colorata di stelle diverse. Delle case di terra e paglia, alla facciaccia del cemento armato. Del bacio sulla guancia sinistra e di quellʼaffetto inaspettato da parte di persone che appena conosci, ma che scalda il corpo intero.
Dirò dei pennelli nel mio ufficio, dei colori dei muri, ah, i colori dei muri delle case!
E delle donne campesine con la gonna fin sotto il ginocchio, coi cappelli, coi fasci dʼerba per i cuy, dei loro volti che sembrano fissare un mondo diverso da quello che vedo io e chissà comʼè.
E certo racconterò dellʼimmagine di piedini di niño che spuntano ovunque: da sotto un banco al mercato, da sotto un telo sul marciapiede vicino alla piramide di tomatos “un sol!”, dai carretti di caramelle, dalle schiene legate di tessuti a strisce fucsia.
E che col colore fucsia, che aborrivo per via di Barbie e Lelly Kelly, forse forse ci sto facendo pace.
Dirò del tempo lento, del tempo lento di Nelson nella sua tienda di libri usati. Che legge tutto mentre il mondo scorre fuori dal portone aperto. E le pareti blu sommerse da pagine ingiallite e coste impilate. Della disponibilità a farci due chiacchiere con la gringa, a scambiarsi i nomi, a salutare con un cenno di mano quando passo per strada.
E come Folco mi ha detto, anche nella città si crea il piccolo paesino di “soliti posti” e riferimenti sicuri, la propria tana calduccia, la propria famiglia.



Non vedo lʼora di vedere lʼaltro mondo, quello delle Montagne, dove si vede meglio che la natura vince sempre, senza bisogno di un terremoto a ricordarlo.
Dove lo spazio bianco colorato di verde è tanto e se non è verde è cielo.

E poi, ultima cosa, Aspem cari, lʼincessante scambio che stiamo vivendo. Ispirazione (cristiana?!?), aria che entra dentro, espirazione. Le sento vociare, le cellule del mio corpo, avvicendate a ricevere ossigeno e rilasciare sostanze di rifiuto, continuamente. Così io, attraversata da questa forza. E la consapevolezza che la mia sola presenza qui mi rende attrice, talvolta attiva e talvolta passiva, di uno scambio con lʼAltro e con lʼAttorno. Come una culla questo ritmo quasi biologico da quanto inevitabile, questo dondolare dʼaltalena (columpios). (Chiara Contatore da Cajamarca)

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